Monografia «Leonardo Spreafico»
Testo di Guglielmo Volonterio
LEONARDO SPREAFICO
di Guglielmo Volonterio
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Nudino

1.   La libertà e la sua durata

Fin da una preliminare decifrazione e da una rapida lettura diacronica dei « tratti stilistici » dell'opera di Leonardo Spreafico, i sintomi e i momenti dell'inquietudine esistenziale si manifestano quali inesaudite istanze formali derivanti da un'incompatibilità di fondo tra emozioni e figure tropiche a disposizione, con il risultato che la necessaria e fondamentale articolazione — per dirla con Hubert Damosch — tra gli universi del leggibile e del visivo è resa precaria e conflittuale, mentre viene meno l'assunto necessario affinché la pittura possa eccedere a fatto di comunicazione.
La questione formale comporta in Spreafico, quando venga affrontata nella sua globalità, un oltrepassare la ricerca puramente stilistica per investire il problema della identità stessa dell'arte.
Questo conflitto latente tende a riproporsi ogni qualvolta da una lettura diacronica si passi a una lettura sincronica e viceversa, e si manifesta in termini di estremo contrasto tra abbozzi e opere ultimate, fra le varie fasi ed esperienze che si affiancano e si alimentano reciprocamente, rinviandosi l'una all'altra per tutto il periodo di ricerca con relazioni spesso imprevedibili e, talvolta, segrete. Nella pittura di Spreafico, specie nella primissima fase, ogni contrasto formale è un'enucleazione di più moventi, con i quali bisogna sempre fare i conti anche in un breve saggio come il nostro. Il fine è quello di identificare le pertinenze e le istanze formali separandole dagli stimoli psicologici, nei quali converge una materia complessa di inquietudini e di disagio di vario tipo, vissuti da Spreafico a doppio livello, di esigenza teorica e di istanza emozionale intese a loro volta come dimensioni necessarie per un'espressività che vada oltre il visibile e non si radichi nel mitologico.
L'angoscia e il disagio dell'uomo Spreafico, come vedremo, nascono dall'impossibilità di riscontrare immediatamente in sé il coefficiente unitario delle sopraccennate esperienze percettive vissute di conseguenza come momenti contraddittori, tanto più irriducibili quanto più incommensurabili.
Leonardo Spreafico, nato a Monza nel 1907 e deceduto a Cinisello Balsamo presso Milano nel 1974, inizia un'attività creativa abbastanza autonoma attorno al 1932, poco prima di ottenere il diploma all'Accademia delle Belle Arti, imponendosi subito per innate capacità compositive e per il gusto plastico, per il « senso della forma », come annotava un critico dell'epoca. Da sottolineare inoltre il fatto che, pochi anni dopo il diploma ottenuto all'Istituto di Arte Superiore di Monza, Spreafico aveva già ottenuto significative affermazioni e incarichi a livelli ufficiali; si ricordi per esempio il grande affresco alla Stazione Marittima di New York (1936).
Proprio in questa fase operativa si nota l'irrequietezza di Spreafico, il quale, dopo aver esordito sotto la diretta influenza del naturalismo lontanamente espressionistico di De Grada, suo maestro all'Istituto Superiore d'Arte, aveva guardato ora a Sironi ora a Soffici, mediatori di un'operazione ben più importante: quella del riannodo con un'esperienza anteriore e fondamentale per la pittura italiana, vale a dire con il recupero da parte del Novecento dalla grande lezione di Cézanne. Questo ritorno alla genesi costituisce un fatto fondamentale per definire la personalità e la vocazione di Spreafico fin da allora predisposto a ripercorrere come soggetto, e non per interposta persona, un'avventura pittorica recuperata come aggancio a tutta una sensibilità rifiutata in parte dal Novecento.
Ovvio che la pittura di Spreafico si muovesse in quegli anni nel clima un po' elegiaco, e forse nostalgico, del « lombardismo », spesso rievocato da Spreafico ogni volta che doveva affrontare il paesaggio. Era l'area in cui operavano, oltre al menzionato De Grada, le figure generose di Mosé Bianchi, di Emilio Borsa, di Guido Caprotti e ancora di Anselmo Bucci, menzionabile per l'opera grafica, e soprattutto di Peppo Mariani che doveva portare il naturalismo lombardo a contatto con l'espressionismo, attraverso il quale Spreafico sarebbe poi risalito alla lezione di Gola.
L'universo operativo di Spreafico, che, travolto dal flusso del Novecento e dallo stesso insegnamento accademico, doveva assumere la lezione del Rinascimento come una specie di Super-Io, veniva poi ampliato dalla lezione delle esperienze tangibili e fattive dei suoi maestri: oltre a De Grada, Arturo Martini, Marino Marini, Semeghini. Tuttavia la nostra tesi è che, in questo periodo di confronti e di cauti sospetti, il momento più personale di Spreafico è stato quello di opporre al lombardismo e perfino al razionalismo positivistico di Cézanne un'istanza di «improvvisazione», forse di diretta derivazione matissiana, vale a dire una forte irrazionalità che si rivelerà come frattura dell'ingranaggio formale derivato dall'acquiescenza del Novecento minore alle strutture compositive e agli impianti rinascimentali. Ciononostante, come vedremo, il Rinascimento, che per Spreafico si incentra su due o tre nomi: Mantegna, Piero della Francesca, Botticelli, consentirà, in virtù dell'innata improvvisazione, di ottenere inquietanti reminiscenze settecentesche sulla traccia di certe sbarazzine grazie del liberty. In Spreafico l'emozione fornita da Botticelli si sottende a verticalità goticizzanti in cui si raccoglie la grazia di un movimento leggero, pensoso, in procinto di assumere una nota melanconica e meditabonda, sullo sfondo di una soffusa atmosfera di leggiadria e di armonia in via di cristallizzazione.
In questi termini si compie in Spreafico un'inversione di marcia rispetto al Novecento, totalmente opposta in particolare a quanto era avvenuto in Sironi, rivolto all'archeologia, e anche all'esperienza che andava caratterizzando la ricerca di Marino Marini, proteso all'arcaico. In Spreafico si pronuncia, fin dagli anni del « consenso al regime » forse in parte contrario alla natura dell'artista, un particolare interesse per la « scena » tardo-rinascimentale in cui è sottintesa tutta l'irrequietezza e perfino la rivolta esistenziale del successivo Barocco, che resterà una forma del subconscio e di cui Spreafico ricorderà, nei momenti di maggior presenza esistenziale, la grande lezione fantastica e spaziale. A livello di preconscio Spreafico intuiva che era il mito dell'opera totalizzante, elaborata, funzionante come un sistema chiuso a infastidirlo e, in qualche parte dello spirito, forse della ragione, a turbarlo e a renderlo riluttante. Per questo l'abbozzo ha una vitalità, una freschezza, una spontaneità, una pregnanza che l'opera elaborata ha in parte perso pur arricchendosi di altri connotati. L'opera completa non deve essere però presa come fatto di spersonalizzazione, un prodotto estraneo alla ricerca di Spreafico. L'ideologia del Novecento minore, accademico, intransigente e spesso celebrativo agiva sì come una sorta di Super-Io, ma in Spreafico questa forma è intesa quale situazione oggettiva, inalienabile se non a scapito di una parte importante di sé, in riferimento alla quale e attraverso la quale si imponeva la necessità di verificare il possibile impatto delle immagini simboliche nella sfera dell'archetipo.
Frattanto Spreafico compie viaggi in Germania, in Francia, in Inghilterra, negli U.S.A., più tardi in Spagna, interessandosi ad ogni esperienza artistica quel tanto che la coscienza gli consentiva. Ed è a livello di coscienza critica che avviene il lungo periplo intorno all'evoluzione dell'arte moderna con una insistenza (e a spese proprie) che ne indica l'impegno conoscitivo ancor prima che artistico, alla ricerca di un'identificazione in ricerche ed esperimenti coinvolgenti sul loro risvolto un altrettanto puntuale processo di smitizzazione.
Spreafico all'inizio ottiene gli strumenti culturali d'identificazione da quel « lombardismo » ritenutone la matrice naturale. Ma in questa matrice, come vedremo, c'erano già tutti i presupposti per un moto esplorativo inverso, di tipo centrifugo. Né Spreafico era l'unico a intraprendere un'avventura di siffatta natura, volta a un processo di estrapolazione culturale, mentre le voci del regime parlavano di « spostamento del centro di gravità dell'arte contemporanea », la quale, dopo una cura d'opposizione che dura da mezzo secolo, « ritrova la sua fede in Roma ».
« Gli artefici del nostro Risorgimento, quello del XX secolo, — continuava euforico Waldemar George sul Catalogo della XVII Biennale di Venezia del 1930 — hanno intrapreso una revisione totale dei valori dello spirito. Mi stupisce che questi riformatori abbiano trascurato l'elemento artistico. Per coloro che, come noi, credono nell'Italia, per coloro che aspirano vederla riprendere le leve di comando della cultura moderna, non può essere il caso di adottare artisti italiani di nascita ma che non rappresentano né il genio, né le virtù maestre di un'estetica d'espressione italiana. Per noi il problema dell'italianizzazione della plastica moderna si pone in modo tutt'altro diverso ». E concludeva trionfalmente: « Un popolo che ha colonizzato il mondo, nel senso letterale e nel senso metaforico, ha diritto ad aspirazioni ben superiori a quelle di generare delle glorie puramente locali. La sua ambizione non è quella di vedere degli italiani prendere posto fra le glorie europee, ma quelle di strappare l'Europa alla tutela del Nord, di romanizzarla ».
Si tornava, come risulta dalle affermazioni soprariportate, a una concezione antropologico-culturale pre-illuminista, volta a privilegiare una civiltà, in questo caso la presunta « romanità », rispetto a tutte le altre considerate di categoria inferiore. È una tesi di cui lo strutturalismo antropologico ha oggi fatto piazza pulita. Ma per fortuna gli artisti di qualsiasi coloritura politica già allora la pensavano, chi più chi meno, diversamente. E valga per tutti ciò che scriveva Ottone Rosai nel 1937 su « L'essenziale » (ed. Vallecchi): « L'arte non può essere circoscritta, l'arte non è teoria, non è retorica, l'arte è valore, è bellezza, è assoluto e, come tale, ha bisogno di svolgersi in un suo clima di libertà e di coraggio. L'arte e la scienza sono strade iniziate dagli uomini per essere seguite dagli stessi allo scopo di crearsi un loro mondo sia pure di relativa perfezione, ma almeno il meno imperfetto e quindi non si sia proprio noi a lasciarle in tronco ».
La pittura del Novecento italiano, e non solo la pittura, attende ancor oggi una revisione approfondita dei connessi valori e delle risultanze artistiche, revisione che prende le mosse da queste ultime, oltremodo sospette dal punto di vista dell'ideologia di allora.
Le resistenze e i dubbi dichiarati o impliciti nelle esperienze formali contestano al Novecento di possedere la prerogativa per un coerente « ritorno alla storia » a causa della formulazione più o meno ufficializzata che non pareva concedere agli artisti un rapporto attivo con la Storia stessa. Le resistenze sorgevano, pertanto, dal dubbio che l'invocato ritorno all'ordine, propugnato ed esaltato dal Novecento in genere, dalla Teoria dei Valori Plastici di Ardengo Soffici, pur con tutte le motivazioni del caso, costituisse una risposta esauriente alle istanze linguistiche e sociali delle avanguardie dei primi decenni del secolo.
E allora ci fu chi guardò a Dérain e a Picasso del periodo classicista, e Capek e a Permeke, al purismo di Ozenfant e spesso seguì peraltro l'insegnamento di de Segonzac, spingendo lo sguardo al secondo espressionismo di un Cari Hofer e perfino al grande Beckman. La verità è che nel Novecento — come annotava Massimo Carrà — « fuori dal cliché più comune c'è tutta questa idea di un nuovo civile umanesimo, che vale simultaneamente come stimolo di razionalità e d'impegno dei sentimenti verso un concetto dell'uomo che è volontà di antichi consensi e accordi, ma nel senso di ricollocarlo, l'uomo, al centro di un lento lavoro di recupero esistenziale ». Ma Carrà ricorda ancora l'« altro tipo di Novecento », quello della contaminazione politica e più tardi dei « fez, gagliardetti, legionari e battaglia del grano », che fu, cioè, la « seconda faccia, pomposa e servilmente accademica, ad attrarre le schiere più colte di pittori e scultori, lo sciame di tutti i coristi. Una situazione dunque contraddittoria all'estremo, da cui furono pochissimi a salvarsi ». Per la maggioranza di coloro per i quali l'arte era un modo di non asservirsi, Cézanne costituì un punto di riferimento quasi obbligato, non tanto per la teoria della forma-colore quanto per il tentativo di « rendere la verità in pittura ».
Si può dire che Spreafico fu uno dei primi che, sotto l'incalzare dell'esperienza dei Marini e dei Semeghini, sensibile al richiamo del lombardismo, alle fonti più autentiche, sospettò della lezione autoritaria di Sironi e di Carrà, specie di quella del secondo, prescindendo dal loro valore artistico. Il processo di distacco dai maestri passava in Spreafico attraverso l'adesione alla passionalità interna che rifiutava la forma statica. Al contrario la forma era da lui concepita come campo di una energia complessa, infine come spazio di forze imprigionate, difficilmente riducibili a strutture omologhe. Alle mitologie e alle gratificazioni del Novecento ormai restauratore, accademico e celebrativo Spreafico opponeva l'impossibilità di pianificare l'irrazionale in quanto non aveva alle spalle esperienze e avventure artistiche eterogenee, delle quali si avvalevano invece i « novecentisti » più anziani di lui, ognuna delle quali poteva costituire un punto di riferimento o addirittura un elemento di opposizione dialettica, quale fu ad esempio il futurismo per Sironi o per De Chirico. E Spreafico neppure poteva usufruire di quell'avventura traumatizzante ma redditizia che fu la rovinosa prima guerra mondiale, causa di dissolvimento di molte illusioni, in conseguenza della quale l'uomo riscoprirà la Storia come dimensione e confronto umano.
In Spreafico erano andati privilegiandosi, dopo una prima esperienza plasticista, i temi ritmici, per non dire coreografici, sistemati su estenuanti quanto suggestivi arabeschi, come già si notava in quegli anni. Si è così parlato da parte di Leonardo Borgese di « temperamento genuino di sognatore » e sul Giornale di Bergamo del 13-XII-1939, di « qualità congenite, fra le quali prevale la sensibilità cromatica », nonché di « audaci accostamenti di colore che fanno nascere nel colore e con il colore un mondo fiabesco (Renato Toselli)», e non soltanto come racconto ma come « ispirazione coloristica di calda intonazione fantastica (A. Podestà) ». Tuttavia il Podestà non si mostrava del tutto consenziente nei riguardi di Spreafico: gli rimproverava il rischio di un'eleganza sensualisticamente raffinata, ma languida. « La fiaba — sentenziava infine il Podestà — è il cammino esaltatore dell'Arte: ma il modo autentico di comunicativamente concretarsi sta nella sua risonanza espressiva, ottenuta con un testardo approfondimento, una lenta elaborazione dei mezzi propri della pittura, con la forza, emotiva in se stessa, di quello che è stato chiamato il dramma plastico ». In effetti, dal '35 in poi, in Spreafico si accentuava la fluidità delle forme, seppur sempre plasticamente delineate, sistemate all'interno di un movimento ritmico in cui il valore cromatico riusciva a situare un ulteriore sistema espressivo e non sempre conciliante con la trama preconcetta. In qualche modo Enotrio Mastrolonardo intuiva lo stadio embrionale della ricerca senza intenderne tuttavia il genuino significato conflittuale, specie quando scriveva che « la materia pittorica si disperde troppo facilmente oltre il segno e non rileva mai uno sforzo interiore di un intenso raccoglimento dei valori tonali. Da qui l'estro coloristico dello Spreafico tradisce la casualità da cui nasce e con cui si esprime. Lampi di colore vivo, toni accesi che si sciolgono in sbavature formali di dubbio effetto ».
L'annotazione di Mastrolonardo ci interessa perché avverte come il « cromatismo » di Spreafico non obbedisca all'impostazione prospettica e conferma, pur sulla base di una valutazione negativa, il valore « visivo » del cromatismo del monzese contro i valori « tradizionali ». Capovolgendo la tesi plasticista di Mastrolonardo, la frattura all'interno dell'intelaiatura prospettica è per noi invece sintomo di revisione ideologica della pittura che consente al pittore di avviare quell'esperienza coloristica che lo porterà stilisticamente molto vicino a quello che si può chiamare il « naturalismo soggettivo » dei « fauves ». Secondo noi la critica italiana « novecentista » confondeva, per quanto atteneva alla ricerca di Spreafico, « casualità » con « improvvisazione » matissiana, in cui il pittore potrà più tardi intervenire da demiurgo. In altri termini Spreafico « sogna » non per evadere, ma per non evadere. Un fatto da sottolineare è che in una critica pubblicata il 15-XII-1939 su « Il lambello » di Torino, firmata con lo pseudonimo Giaga, si sottolinea come « Leonardo Spreafico si presenti come un coloritore di coraggio e d'impeto, ma tutto elaborato in maniera per così dire preventiva, e poi, solo in un secondo momento, espressiva». L'intenzione di Giaga era di mettere in evidenza la duplicità di intenti secondo noi determinata dal fatto che per il monzese la sperimentazione doveva avvenire all'interno del sistema crittografico — che non necessariamente si istituisce come sistema convenzionale — e non opporvisi preintenzionalmente fin tanto che la crittografia non avesse completamente esaurito la sua funzione oggettiva.
Nel corso del periodo degli anni trenta Spreafico ci appare pittore intento a mettere in questione ogni momento della sua esperienza, quasi negandola nel giro talvolta tortuoso dei punti di appoggio e di riferimento, al fine ultimo di restituire il sistema crittografico alla propria ansia umana. Nella sua pittura fin dall'inizio c'è consenso e dissenso da non intendersi tuttavia in quanto atteggiamento politico, ma polarità inestinguibile, emergente dalla prassi sulla base della quale il problema era come conciliare il materiale fantastico ricavato dalle emozioni e dalla conflittualità stessa delle esperienze con il linguaggio crittografico.
Val la pena di ricordare, rifacendoci a Roland Barthes, come la « scrittura » è un « compromesso tra una libertà e un ricordo, in ragione del quale la libertà si riduce nel gesto di una scelta, ma non già nella sua durata », mentre i soggetti diventano irrevocabilmente « prigionieri delle proprie parole e dei propri segni ». Infatti è « sotto la pressione della Storia e della Tradizione, continua Barthes, che si stabiliscono le scritture possibili di un dato scrittore. ... Ma nel momento in cui la Storia generale propone o impone una nuova problematica del linguaggio letterario, la scrittura resta ancora piena di ricordi e di usi anteriori, perché il linguaggio non è innocente: le parole hanno una memoria seconda che si prolunga misteriosamente nel mezzo delle nuove significazioni ».
Pur con tutte le cautele del caso, la considerazione di Barthes riguardante la scrittura ci pare applicabile anche a livello di linguaggio pittorico, che è un linguaggio simbolico privo di unità minimali nella sfera del quale tuttavia la presenza della Storia in quanto Ricordo è maggiormente ingombrante perché essa non si impone soltanto nel campo del « visibile », come dicono i semiologi, ma anche nel « leggibile », la cui reciproca articolazione è determinante ai fini del linguaggio. L'operazione pittorica di Spreafico risiede in certa qual misura nell'affrontare sistematicamente il rapporto con la Storia pur conformandosi alle proprie emozioni. La Storia non era percepita da Spreafico semplicemente come sistema parametrico, ma soprattutto come materiale vitale e per altro di rimozione, nel quadro del quale il fondamentale incontro-scontro con la realtà da parte dell'individuale si conforma al rapporto freudiano tra Principio di Eros e Principio di Realtà.
Un fenomeno diffuso nella pittura italiana degli anni trenta più di quanto si possa pensare, dal momento che l'erotismo è ricerca della natura e dell'emozionalità spontanea. La pittura più segretamente o dichiaratamente contestativa del decennio si imbeve di erotismo, come accade con l'espressionismo romano, Scipione in particolare, che è risonanza di virtualità individualistica. L'aspetto sensuale della pittura di Spreafico manifestantesi nelle sinuosità larghe e pesanti degli arabeschi — pertanto non « languidi », come fu scritto, ma intrisi di ambiguità — ne è allora il dato contestatore, l'elemento corrosivo e testimoniale di una realtà impossibile da integrare nella crittografia di comodo e tanto meno in quella accademica e celebrativa, e quindi da esprimere nella dimensione umana del simbolo indefinibile. Se da una parte Spreafico si arrende alla pittura dell'epoca per quel tanto che gli consenta di verificare le modalità e le contraddizioni di questa resa, cioè la propria interiore conflittualità in un'epoca di chiusure politiche, dall'altra riesce a Spreafico di staccarsi dalle esperienze più compromettenti del periodo per compiere una rilettura del grosso patrimonio del simbolismo iconico dal Rinascimento al Settecento, al fine di constatarne la corrispondenza con le individuali figure preconcette a livello di subconscio e e di inconscio collettivo, quindi di rimosso e di insoddisfatto. Spreafico aveva intuito che in pittura le figure stilistiche costituiscono sempre dei tropi in coincidenza con la nostra attività psichica più segreta, e ancora che il Novecento gli riforniva una serie di figure archetipali emergenti se non dal subconscio almeno dal preconscio, e quindi figure di una confessione delirante da assumere nella loro consistenza simbolica e « reale ». In Spreafico c'è una vaga intuizione del nostro condizionamento da parte della realtà mitica e linguistica che ci attraversa, per dirla ancora con Barthes, e quindi il puntiglio, seppur ancora confuso e controllato, di assumervi un ruolo attivo ricorrendo alla via emozionale e sviluppando una ricerca di identità che non doveva limitarsi a procedere parallela alla ricerca stilistica, ma sostanziarla. Le figure tropiche e archetipali derivate dal Classicismo e riemerse col Novecento, susseguentemente identificate come figure del « subconscio italiano », tendono a diventare in tal modo dei test psicanalitici (o meglio autopsicanalitici, se ciò fosse possibile), degli stimoli per sorprendersi in buona fede e per far scattare le molle della confessione. Il risultato era quello di investire il simbolo originario dell'emozione provata, oggettualizzandolo.
È per questo che fin dall'inizio si è parlato di « pittore sognatore » e, mentre altri parlano di « surrealismo lirizzante », Fred Pittino sottolinea il « clima mitico, creato dal colore che evade dalla realtà e dall'atteggiamento fiabesco dei personaggi ». Dal canto suo Leonardo Borgese parla ancora di « mondo sensuale con una certa innocenza, soffice e lievemente ironica » che « assomiglia a un paradiso terrestre lontano, appannato dal ricordo », mentre un critico monzese aveva già parlato qualche anno prima di « privilegio di stupire e di scandalizzare ».
Spreafico operava in quel periodo sulla base di una ambiguità cromatica che investiva gli apparenti accordi o le inattese e violente discordanze di rapporti tonali già prossimi alle consistenze timbriche di matrice espressionistica o derivanti dal Barocco spagnolo (i Goya e i Velasquez) con la memoria talora rivolta al Settecento.
Il dramma di Spreafico si misura nella cadenza del ritmo, dei gesti e del movimento prossimi alla danza, negli accordi segretamente spezzati dalle discordanze, nel senso di grazia e di soavità che pare pervadere e spiritualizzare le cose, cui, con la stessa tensione controllata e nascosta, si oppone la sensualità degli arabeschi a sua volta trattenuta nella grazia della decoratività. La composizione di Spreafico si dilata pertanto per caute, celate e quasi inattese opposizioni, trepidanti di vita non appena le si colgono nel loro discorso intimo. E fra queste opposizioni prevale quella della realtà e dell'irrealtà, vale a dire il mondo dell'Eros e della speranza contro la natura repressa, entrambi elementi di un'unità spezzata. La conseguente evasione da questa nel sogno, per dirla con Freud, diventa lo spazio e il clima del delirio, il campo delle sublimazioni e dei trasalimenti mistici, dei simboli volutamente ambigui, come pure dei fantasmi dell'irrealtà irraggiungibile. Spreafico aveva poi compreso che l'impianto classicista, al quale si adeguava l'emozionalità, altro non era a sua volta che una figura tropica, e che essa traduceva un'esigenza umana di equilibri formali quale doveva scaturire non tanto da un atteggiamento mimetico, rispetto al Rinascimento, ma dalla sintesi di esperienze fra di loro antitetiche.
È stato un momento di esaltante e forse ingenua speranza, nel corso del quale a un concetto di storia astratta Spreafico tentava di opporre una storia di prassi e di coscienza umana. Così la composizione neo-classicistica di Spreafico, al di là dell'apparente compostezza, rimane a livello psicologico, ma anche formale, opera aperta.
La dinamica quasi coreografica delle figure dei gruppi allegorici, all'opposto di quanto avviene in Botticelli, cui in questo periodo guarda Spreafico tenendo pur sempre presente il grande Diirer, tende alla dilazione del movimento stesso e persino a un accenno di cristallizzazione in quanto vaga sintesi di quadridimensionalità.
In Spreafico si sviluppa in questi gruppi allegorici (da quelli degli incontri femminili a quelli più eterogenei come « Il racconto dello zingaro » o « Il pittore di nudi ») un clima di silenzio quanto mai teso, reso terso per i rapporti prossemici quanto mai intensi e significativi.
Il corpo femminile — ed è un tema sul quale bisognerebbe sostare a lungo — è in Spreafico un campo di intense implicazioni psicologiche e in pari tempo un momento di grazia e di intimo, segreto seppur illusorio equilibrio, consacragli mediante il silenzio stesso. È il mondo della magia e del mistero ai margini di una fondamentale tendenza mistica, che più tardi si avvarrà dei contrasti espressionistici.
Il corpo della donna è poi origine di inattese emozioni sullo sfondo di una sensazione primordiale: quella di essere a contatto con il mistero stesso della realtà, che è vita e universo, quindi mistero cosmico. Una sensazione quindi di cosmicità che si traduce in una segreta e, una volta ancora, misteriosa nostalgia che si fa contemplazione del corpo della donna a questo punto non più solo corpo, ma universo totale. Esso diventa pertanto la figura tropica della Grazia innata che impone nei riguardi dell'uomo un rapporto quasi impossibile che solo al pittore è dato di rilevare e di sublimare. Siamo in un atteggiamento prossimo all'estasi, come nella sublimazione della figura centrale protagonista della « Toilette di Ester », che tende a smaterializzarsi, a subire un processo di decantazione mediante l'uso della forma-colore quale espediente per travolgerla e toglierla dal tempo sensibile, dal continuo temporale. La scena tende ad assumere la modalità e la grazia della cerimonia con quel tipico accenno di extratemporalità che è proprio del rituale.
Ma più che di smaterializzazione della figura centrale bisognerebbe parlare di decantazione della materia attuata mediante il procedimento della forma-colore di derivazione pre-fauvista (metaforicamente la « durata della libertà »).
Il processo fondamentale di questo periodo è quindi quello della graduale smaterializzazione di alcuni personaggi in contrasto con la identità materiale e psichica delle altre figure che incorniciano la scena.
La costante della figura di centro, smaterializzata o quasi, che per Spreafico, ancora sinonimo di depurazione, è resa ieratica da una certa qual semitrasparenza e dai movimenti incipienti in procinto di cristallizzarsi. E' la figura della dinamica sommessa quale appare nella « Toilette di Ester » e ancor meglio in « Le confidenze di Venere ». Nella composizione essa agisce da centro etereo, allungato a ellisse, che proviene fin dai primi paesaggi del 1931-32, quando Spreafico era ancora studente all'Accademia. Lo si nota in « Paese romano » (1932) dove l'oggetto in via di smaterializzazione è rappresentato dalla casetta posta in una specie di radura all'interno del bosco. Da notare la ricchezza del chiaro-scuro realizzato in base a una linea direzionale che sta tra Cézanne e De Grada. Piace fin d'ora sottolineare la presenza di due costanti stilistiche di Spreafico: il post-impressionismo sintetico di Cézanne che si aprirà più tardi ai « fauves », e la costante lombarda, la cui densità naturalistica già si concilia con una poesia vagamente misticheggiante e idealizzante, all'insegna di una sintesi di gesti e di interiorizzazione dinamica, cui il colore pre-fauvista, talvolta chiarista, assegna la dimensione spaziale. Ma in questo caso è un volume aleatorio, inconsistente, figure dell'irrealtà in quanto mondo altro, dell'Eros, dello spirito in quanto positività assoluta. Non a caso questa immagine prima sarà la fanciulla, simbolo dell'« eterno femminino », poi la casa, il candore di un cavallo fantasmagorico, infine, nelle « Venezie », la sagoma della Chiesa della Salute.
Il ricordo del colore « fauve » ha un significato di estraneità nella condizione esistenziale senza con ciò perdere il senso della realtà. La figura smaterializzata diventa il risvolto dell'immagine della materialità simboleggiata dall'« altra figura»; nel « Pittore di nudi » da quella dell'artista che si appropria della bellezza e della spiritualità. In « Profughi dell'Eufrate » riappare l'Innocenza sotto forma di fanciulla isolata e il contrasto è tra questa creatura inerme, diafana e allegorica e i corpi massicci dei due cavalli, ripresi posteriormente, che la affiancano e la costringono in uno spazio precario, indefinito, che quindi connota inerzia e solitudine. E' il modo tipico di Spreafico di usare un impianto rinascimentale per esprimere un concetto del tutto moderno, ratificato dai connessi significati esistenziali. In «Amanti» il significato è più esplicito e deriva dall'osservazione dei fiamminghi riguardo ai quali qualcuno ha alluso a Vermeer per l'impiego dei verdi.
Noi pensiamo anche a Teniers figlio per il tema della polarità in quanto unità di opposti. In « Amanti » l'opposizione sta tra l'uomo e la donna ed è un rapporto che ha qualcosa di insolente, come negli « incontri » di Teniers tra uomo giovane e donna vecchia. In Spreafico non c'è la promiscuità generazionale, c'è piuttosto un contrasto di positivo-negativo, di smaterializzazione e pregnanza, alfine di maschio e femmina. In fondo i due personaggi della polarità formano un solo personaggio e vedremo come, nel periodo della maturità, l'intera composizione acquisti la dimensione di un unico personaggio. Da ciò deriva l'intensità della composizione o meglio dei gruppi di Spreafico, soprattutto il dialogo costante delle cose, dei personaggi, specie se sono due, metafore della polarità stessa in quanto elementi opposizionali della conoscenza. E da ciò proviene anche il mistèro delle cose, soprattutto il mistero che avvolge i loro rapporti, sempre in procinto di ribaltarsi in ambiguità dichiarata, irriducibile, e, alla fine, quella nota magica, vagamente metafisica, che or più or meno pervade il dipinto.
A dar risalto all'ambiguità di fondo concorreranno, attorno al 1950, i gruppi di donne, spesso in due, i cui visi risultano complementari rispetto allo spazio che le avvolge e le unifica entro un ideale cerchio, la cui circonferenza — di ispirazione ingresana — sarà da lì a poco la forma che sintetizzerà il volto umano della figura isolata. Dunque il viso sintetizzato in cerchio contiene idealmente due visi, il positivo e il negativo, il maschio e la femmina. Esser riuscito a ridurre questa polarità a una linea circolare di tale pregnanza costituisce uno degli arrivi di Spreafico, anche se a tal proposito qualcuno vorrà ricordare le esperienze di un Marini o di un Klee. Per altro la complementarità del positivo e del negativo è un fatto costitutivo del cubismo, soprattutto braquiano, cui Spreafico è debitore.
I personaggi che muovono le emozioni, i sentimenti e gli stati d'animo nel corso del periodo del fascismo sono dunque le figure del Ricordo: la fanciulla come allegoria dell'Innocenza indifesa, l'odalisca, di lontana derivazione goyesca, come simbolo dell'idealizzazione dell'amore, le figure femminili come immagini dell'« eterno femminino », e inoltre le figure dell'amicizia, classicisticamente personificate, che il movimento in via di cristallizzazione rende ancora più totemiche, fra cui prendono risalto il totem maschile: la figura catalizzatrice e trasfiguratrice dell'artista nel « Pittore di nudi », o quella più epica e perfino ambigua dell'« Uomo a cavallo », cui si oppone la figura del nomade, in « Il racconto dello zingaro », che è il simbolo di un mondo « altro », sconosciuto, forse metafora della Poesia stessa dell'Arte. Alla figura dell'artista in quanto « figura medianica », eredità della Teoria dei Valori Plastici di Soffici, Spreafico oppone la figura dell'artista in quanto sognatore, che reca la «buona novella», ma già tutto complice perché compromesso in prima persona non appena inizia il racconto che è Realtà e Ricordo ma anche improvvisazione.
La vocazione dell'« improvvisazione » contiene in Spreafico una nostalgia, un reincontro con la Natura, una ricerca di spontaneità e di immediatezza, dal momento che è proprio nella spontaneità e nell'immediatezza che ci si può illudere di far perdurare più a lungo possibile la libertà (per riprendere la immagine di Barthes) o addirittura di rendere la libertà illimitata e non ristretta al gesto.
Spreafico scopre che la Natura non è solo « naturalità » ma « seconda natura » qual è l'inconscio, la struttura rimossa e repressa, infine che la Natura stessa non può sottrarsi a un fondamentale processo di inculturazione per la fatale condizionante via del « segno ». Proprio sulla via verso la Natura Spreafico incontra allora il simbolo che non può mai essere « naturale » o meno, ma solo autentico o mistificatorio. Il problema principale della pittura di Spreafico appare allora, fin dal primo momento, essere quello della mediazione. Spreafico si mette allora sulla via della difficile ricerca del « segno autentico », vale a dire di quella mediazione che rifletta non solo la conflittualità di tipo ideologico interiore al pittore, ma anche, e soprattutto, la crisi di identità alla quale, a livello formale, si aggiunge la limitatezza dell'esperienza personale e storica. Nell'ambiente italiano Spreafico, ripetiamo, si trovava ancora alle prese con un Super-Io di tipo rinascimentale, con il quale forzatamente doveva fare i conti, perché ogni tentativo di sottrarsene l'avrebbe ricondotto a mediazioni traslate. L'orgoglio del monzese era quello di percorrere una ricerca tutta in prima persona. Fu lo spazio di una esperienza solitaria, unica, insolita per l'ambiente italiano di allora, irta di pericoli, di contraddizioni, soprattutto di « ritardi » e di remore. Ma è stata una via, un periplo, che ha reso l'esperienza di Spreafico irripetibile, e, proprio perché « europea », personale, impossibile a raccordarsi a qualsiasi altro movimento dell'epoca, piena di debiti e di crediti, debiti verso un'intera esperienza moderna, dai Nabis dietro ai quali si ritrovano i Puvis de Chavannes e i pre-raffaelliti, all'Ecole de Paris, con il suo concetto di colore in quanto valore volumetrico. Così come più tardi sarà debitrice dell'espressionismo francese, senza dimenticare da una parte Matisse, Bonnard, il cubismo picassista e soprattutto quello braquiano e, dall'altra, gli italiani, dai Mariani e dai Gola fino a De Pisis, capostipite di un impressionismo aggiornato. È giusto perciò sottolineare l'aspetto precorritore della pittura di Spreafico nei riguardi sia di « Corrente » che del successivo naturalismo lombardo, e addirittura per ciò che riguarda la lezione cubista in Italia. Ma, in questa prospettiva di evoluzione personale, bisogna ancora sottolineare da una parte il distacco e la frattura con il « lombardismo » e dall'altra il ricorso nel dopoguerra alla matericità del colore quale mezzo esaltante la dimensione volumetrica e spaziale dei valori cromatici. Il che già si intravede in taluni dipinti come nella « Mezza figura » del 1937.
La pittura di Spreafico veniva pertanto a riscattare, fin dagli anni del consenso al fascismo, l'emotività umana quale metodo epistemologico, ricco di impennate e sublimazioni, rinviante a una natura e a una sensibilità che tendevano a sottrarsi al controllo diretto della ragione, pertanto alla « ragione » del Novecento, al suo ideale neoclassicista, di « purezza formale ».
Espressionismo e neoclassicismo sono due opposti tra i quali si dibatterà e oscillerà la pittura di Spreafico per buona parte del suo iter artistico, in riferimento ai quali si svolgerà l'intenso discorso del pittore eternamente insoddisfatto non tanto, secondo noi, per un suo proprio giudizio globale, quanto per la molteplicità e perfino per la contraddittorietà dell'osservatorio critico in cui l'artista veniva a trovarsi nei riguardi della propria attività creativa. Ma in questa tensione si plasmerà una statura morale inquieta e, proprio per questo, solida e intollerante soprattutto con se stessa, autoritariamente autocritica, lucida proprio nei momenti in cui la bipolarità della pittura esploderà per lasciar libera la carica sensitiva. E' un momento di ampia portata, di cui l'esplosione cromatica misurerà il patrimonio culturale ed esistenziale accumulatosi per tutto un periodo di intensa lotta interna, nella quale si rifletteranno poi gli echi di un mondo esterno lanciato verso la propria rovina, verso quel conflitto da cui doveva alla fine uscire un nuovo volto italiano.
La pittura di Spreafico è un mondo di riflessi. Le figure archetipali del subconscio collettivo italiano si riverberano all'interno dell'animo del pittore, il quale a sua volta proietta all'esterno i sentimenti ricavando dai volti la sua stessa fisionomia. Era già stato scritto che le figure femminili di Spreafico apparivano come figlie della stessa madre. Noi vogliamo andar oltre dicendo che esse sono figlie dello stesso padre, Spreafico in persona, il quale, dando loro i suoi tratti essenziali, le rende figure confessionali. Lo si avverte già con « Toilette di Ester » del '36, e si precisa con « La vita in campagna » del '40, confermandosi dichiaratamente con « Le donne inquiete », in cui si rompe definitivamente l'arabesco e l'impianto architettonico si disunisce lasciando ampi spazi emozionali tra l'una e l'altra figura, ognuna in preda a una sconvolgente concitazione.
La « confessione » di Spreafico nella sua migliore formulazione resta a mezzo respiro, cauta e, specie nel primo periodo, assume un'aspetto riservato, quasi fosse proposta più all'autore che al lettore. C'è così una parte della confessione che si sottrae alle letture altrui, quasi a osservare un'estremo pudore mediante il quale il pittore possa trovare lo slancio intimo che gli consenta una libertà in accordo con l'etica professionale: un'esigenza dunque di comunicazione con il destinatario preventivata e controllata.
Così, parallelamente ai gruppi allegorici e metaforici, si sviluppa una pittura contrassegnata dall'esperienza impressionista, ma di un impressionismo che non si limita all'effettistica luminosa, anzi che include nella pennellata una tensione volumetrica in opposizione alla tecnica divisoria del secondo impressionismo, quello da Seurat in poi. Alle spalle di Spreafico agiva per altro l'esperienza lombardista dei Mariani e dei Gola rivissuta attorno agli anni '40 all'ombra dell'influenza di De Pisis e di Morandi.
La frantumazione dell'oggetto in senso impressionistico indica in Spreafico l'esigenza di una rottura della prospettiva rassicurante di tipo rinascimentale, e vuole introdurre nel visivo una molteplicità di prospettive e di aspetti delle cose e dello stesso artista, gli uni riflettentesi negli altri, in modo da esaltare il sentimento dell'inconciliabilità con se stesso, rivelando in altri termini i modi di apparire come disgregazione della propria unità materiale e spirituale. Per questo la pennellata si presenta come un'unità espressiva, un simbolo complesso e non certo un tratto aggregabile agli altri entro un contesto che si riveli grazie all'anomalia dell'occhio che li riassocia riplasmandoli.
L'impressionismo espressionistico di Spreafico negli anni '39-40 rifiuta la tecnica della dissociazione mantenendo intatte le unità espressive cromatiche onde esaltarne la consistenza seppur enigmatica, l'emozione che risulta dal loro rapporto indiretto, non alieno a risultanze liricheggianti, come dimostra uno dei migliori dipinti dell'epoca, la « Venezia con la Chiesa della Madonna della Salute ». I verdi, gli azzurri, i gialli luminosi vanno in questo periodo assumendo profondità interne, prospettive spaziali che arricchiscono la simbologia cromatica del pittore, più enigmatica col passar del tempo, proprio per la dilatazione del margine di mistero, che è poi l'espressione al di là della comunicazione.
Questa sensibilità per il colore porterà il pittore ad ampliare la sua gamma cromatica introducendo nuovi colori, seppur d'impasto, per ottenerne l'interiore pregnanza, come i viola, i neri, i bianchi contaminati, i marroni, i rossastri, cercando dalle campiture e dalle casuali raggrumazioni un'intensità e una profondità non riscontrabili nello svolazzo ardito della pennellata. Così la composizione si ripropone in strutture architettoniche più controllate da cui sono eliminati i panneggi e gli arabeschi: viene rifiutata la figura umana per far posto al solo oggetto, spesso sfaccettato in ragione di un interiorizzato processo di geometrizzazione. La consegna è tuttavia di mai forzare la apparenza delle cose, perché il discorso di Leonardo Spreafico deve attuarsi attraverso la mediazione degli oggetti onde poter attingere all'animo umano. L'oscillazione di Spreafico si sviluppa dunque tra figura archetipale del subconscio collettivo e simbolo cromatico. Tra l'una e l'altra di queste due esperienze, la cui unità consiste nell'essere entrambe dicotomiche, la prima ricorrendo alla percezione intellettiva, l'altra alla percezione sensoriale, sta l'esperienza del ritratto che riesce talvolta a sintetizzare le due tendenze, accogliendo dell'una e dell'altra le emergenze più significative.

2.   II volto umano come campo dell'ambiguità

Nel ritratto o nel dipinto con persona singola — in maggioranza femminile — il processo di cristallizzazione del movimento cadenzato dei gruppi allegorici ha compiuto il suo ciclo di congelamento, e la figura che ne segue ha ottenuto l'immobilità di un'estasi di tipo mnemonico per consegnarsi tutta a un sentimento essenziale: la solitudine. Così, mentre nei gruppi precedenti e perfino paralleli e successivi a questa pittura intimista, o meglio confessionale, prevalente è il ritmo cadenzato, dominante nel personaggio solo è l'architettura della figura umana. Vediamo una volta di più affacciarsi la lezione cézanniana sulla linea dell'esperienza che privilegia la strutturazione dei volumi, dei piani e delle loro intersecazioni evidenti o segrete, in un sol termine ciò che Cézanne chiamava la definitezza formale. Questo processo di ristrutturazione del personaggio, addirittura di psicologizzazione, avviene all'interno di un processo ancora più vasto che ha quali temi opposizionali l'interno e l'esterno. L'esterno in questo primo periodo è lo spazio dell'archetipo, in genere del simbolismo. L'interno invece accoglie una confessione in prima persona ed è quindi uno spazio esistenziale retto dall'unico statuto del silenzio, sulla base del quale il dramma individuale viene captato attraverso l'atmosfera del dipinto e il cifrario psicologico.
L'impianto della figura sola rimane quello neoclassico, anche se il pittore non disdegna l'insegnamento di un impressionismo in via di solidificazione e già prossimo al « chiarismo » tra le cui annotazioni include una grazia settecentesca e una vocazione al liberty, come già rilevava Alfonso Gatto. Nella figura solitaria i tratti psicologici sono più incisivi. Il viso della donna assume un colorito malato, una velata tristezza, una sorta di rassegnata impotenza legata misteriosamente a un inquietante sentimento nostalgico. La proiezione del proprio stato psicologico da parte del pittore è qui più che evidente, ed è interessante notare come questa « confessione » indiretta avvenga attraverso quel personaggio femminile, qualificatosi come l'essenza stessa della naturalità e del mistero cosmico. Questi « ritratti » (ritratto dell'altra e contemporaneamente ritratto di sé) raffigurano donne in posa, di estrazione borghese, media e alta borghesia, il cui viso rifiuta l'anonimato delle prime composizioni di gruppo per assumere un aspetto personalizzato e un carattere nascosto dietro una presenza enigmatica. Il tema sarà ripreso una decina di anni dopo a conclusione di una esperienza estremamente composita.
La pittura di Spreafico si distingue per la concordanza e l'omologia di esperienze profondamente diverse fra di loro, apparentemente antitetiche. E' una omologia che vai la pena di sottolineare, perché misura l'ampiezza della conflittualità nella ricerca formale, dalla cui stessa opposizione doveva emergere l'unità percettiva e formale. Mentre, per la maggior parte, le figure solitarie si sottendono alla verticalità, assumendo una struttura piramidale, altre figure sviluppano il tema opposto, quello della orizzontalità. Lo esemplifica la « Ragazza con tartaruga », del 1937, la cui orizzontalità è costruita sulla base dell'associazione di più forme piramidali, tradendo con ciò la vocazione di ridurre i volumi a forme primarie geometriche. È una propensione che trapasserà tutta l'opera di Spreafico, quasi che la geometria costituisse l'archetipo di una simbologia smarrita. Ciò che ci preme sottolineare in Spreafico, e ciò sempre sulla base di una lettura diacronica, è la compresenza di forme della percezione normale e di quelle dell'enigmatico, del misterioso, quasi dell'ultraterreno, quasi che la pittura potesse accordare all'uomo il sentimento smarrito del cosmo.
All'inizio degli anni quaranta l'impianto architettonico, non più inteso naturalisticamente come nel primo « lombardismo », favorisce un'ambientazione di tipo metafisico. Spreafico si stacca dalla tendenza impressionistica di alcune « Marine » per affrontare un'altra pittura che possa portare all'esterno l'esperienza della verticalità delle figure sole. Lo dimostra ampiamente l'importantissimo bozzetto «Le statue» del 1939-40, in cui, forse sotto l'insegnamento di Piero della Francesca, si sviluppa un rapporto interessante tra la staticità assoluta delle due statue centrali, quasi smaterializzate come figure irreali, e quindi enigmatiche, e le figure della realtà quotidiana sorprese nell'attimo di un gesto o di un movimento il cui significato trascende la realtà fenomenica per attingere a una realtà metafisica. E' il momento di un discorso per universali, in cui Spreafico riprende dalla vecchia « metafisica » l'architettura con la sua particolare coloritura, riducendo case e palazzi a muri di cinta che trattengono e definiscono spazi immaginari.
La realtà fenomenica non interessa infatti Spreafico che per quel tanto che permetta di stabilire costanti psicologiche, comportamentali e caratteriali al fine di accedere a una realtà essenziale, rappresentabile forse solo in termini di enigmaticità.
L'atteggiamento verso il fenomenico ci consente di comprendere per altro l'atteggiamento spirituale del pittore nei riguardi di quell'immane catastrofe che fu la seconda guerra mondiale.
Nel 1942 anche Spreafico viene mobilitato e trasferito in Sicilia, poi in Calabria. Che la guerra abbia influenzato il pittore e che, a livello di emozione, l'abbia sconvolto, è cosa ovvia. Ma a dedurre che in Spreafico ci sia stata una partecipazione diretta agli eventi che andavano susseguendosi, questo è cosa assai azzardata, e ciò non già per una sua certa insensibilità, ma per quell'atteggiamento verso il fenomenico di cui sopra abbiamo descritto le risultanze. Anzi proprio la guerra, con il suo carico di tragiche contraddittorietà, di disumanità organizzata e pianificata, di scontro morale e politico, portava Spreafico a ricercare nell'uomo stesso quei valori umani assoluti che gli potessero fornire la speranza nella spiritualità. La guerra è stata, a nostro parere, una nuova, fondamentale prova della questione essenziale che per Spreafico è la ricerca di identità, in una forma forse impossibile e che trova nel suo risvolto le ambivalenze dell'enigmaticità. Nell'artista la guerra, in quanto bolgia fenomenica, doveva risolversi in una pittura vagamente metafisica, di breve durata, ma di dichiarata vocazione trascendentale. Contrariamente a quanto avviene con Moore, ad esempio, che nei sotterranei dei rifugi annotava lo strazio di un'umanità minacciata di genocidio, Spreafico in Sicilia e in Calabria, grazie ad un'autorizzazione speciale, si dedica a ritrarre i paesaggi secondo un gusto annotativo, se non folcloristico, in cui predomina la ricerca della luce.
Nel 1944, in Calabria, Spreafico scriverà:
« Io sono lombardo da sempre ed amo la Lombardia. Ma dopo sono certamente calabrese. Mi piace la luce che rende immobile la Calabria e i tre mari che la leccano, i suoi generali che vendono ulivi, i preti bizzarri, i Baroni che suonano il trombone e la gente sempre ferma che aspetta al sole e le sue donne turrite. E la infinita abbondanza di bambini, di avvocati, di mosche, di castelli, di madonne nere, di olio, di filosofia, di saloni. Aria nobile, autentica, se fai così col piede trovi un tempio antico ».
E' importante rilevare come in pieno periodo bellico Spreafico scoprì la luce, o meglio l'intensità luminosa, come elemento essenziale della sua pittura. La luce in quanto componente cromatica era presente fin dalle prime esperienze, specie quelle compiute sotto l'influenza di Paolo Uccello e di Gauguin. Ma la smaterializzazione di alcuni personaggi e il riflesso chiarista che si innerva in certe esperienze verso gli anni quaranta indeboliscono il significato espressivo dell'intensità luminosa, che riappare invece con le discordanze espressionistiche delle nature morte e perfino di certi soggetti metafisici. Ma è una luminosità che, ricca di contrasti, è ancora imbrigliata nell'impasto dei colori, pur con tutte le elettrizzanti vibrazioni che preludono alla timbricità del colore stesso. Il lavoro, orientato verso una luminosità più intensa in quanto fondamento del valore volumetrico del colore, partirà dalla ricerca di un impasto più adeguato alla nuova emozionalità che proromperà con l'inizio degli anni cinquanta, dando avvio a un periodo in cui la soggettivazione del paesaggio non avverrà più per adeguamento allo stato d'animo, ma per intervento di una nuova facoltà dell'artista, il tocco magico. La metafisica in quanto « ricerca della cosa in sé — come scrisse Massimo Carrà — nella sua nuova definizione assunta per stupita certezza dell'esistenza » non poteva tuttavia soddisfare Spreafico: cui l'esistenza più che « certezza » si mostrava come il campo dell'incertezza, lo spazio di una frantumazione delle cose e di se stesso e quindi di un intenso lavoro di ricerca dell'identità. Il periodo post-bellico è pertanto costellato dalla polivalenza di esperienze, le une più inclini a una forma baroccheggiante, come nel bozzetto « Zingari » in cui si ricompone il gruppo come testimonianza di un « territorio » umano, le altre volte a stabilire il divenire delle cose nel tempo.
Con queste il pittore introduce la quarta dimensione come esperienza di rifiuto totale e globale del Rinascimento, portandosi così alle spalle delle avanguardie europee. Tali esperienze, seppur lievitate al contatto con le opere di Picasso e di Braque, traevano origine dall'intimo stesso di Spreafico ed erano quanto mai consone alla qualità fondamentale della sua pittura, nella quale, ripetiamo, positivo e negativo, maschio e femmina, movimento e staticità coesistono perennemente. Tra espressionismo baroccheggiante e cubismo di quest'epoca c'è in Spreafico quasi un rapporto di causa ed effetto, il primo esprimendo una visione sincronica contrassegnata dalla frantumazione dei volumi, il secondo la successiva ricostruzione della realtà nel tempo. Sarà un'esperienza di breve durata, ma la quadridimensionalità resterà interiorizzata nei successivi periodi, quando Spreafico la staccherà dalla sperimentazione cubista per farne elemento sostanziale.
L'espressionismo di Spreafico era passato dal clima dell'annotazione calda, quasi irriducibile, vale a dire dalle sensazioni di getto, a una composizione più calcolata, come lo dimostrano alcuni dipinti del tempo: « La corrida » e le varie «Nature morte». Il colore fauve era diventato materico e più consistente, impasto di profonde tensioni. Non vi predominano ancora, come abbiamo detto, la luminosità ma l'opacità di colori già ricchi di prospettive interne e quindi i valori tonali, lo spessore materico, l'effusione espressa non solo nelle accentuazioni cromatiche ma anche nell'esibizione del mestiere: le pennellate quasi da spatola, franche e concise, esaltano effetti chiaro-scurali all'interno stesso del colore e del grumo, con ciò meglio palesando l'imprigionata luminosità.
Quest'esperienza espressionista, che va parallela a quella dei Tosi e dei Morandi dell'epoca, ha il significato di dilatare la ricerca della forma-colore, affrontando il problema dell'espressività luministica da un altro punto di vista, quello delle accensioni rapide e contrastanti di tipo impulsivo, di contro alle campiture lisce di tipo fauve. Se in quest'ultima esperienza viene rivendicato il lato teoretico della percezione sensoria, nell'espressionismo baroccheggiante di Spreafico predomina la liberazione dei sentimenti come rivolta non tanto contro una realtà repressiva quanto contro un intero universo percettivo e le sue figure archetipali. Spreafico, come si comprenderà, procede in questi tempi per fratture, per rinvii rabbiosi, le cui tentazioni metafisiche appaiono come momenti di elevazione mistica. Il bozzetto « Le amiche » del 1946 è a questo proposito altamente esemplificativo perché nell'impianto cubista si inserisce una significativa mescolanza di simboli in forma di sintesi di « linee » e di forme pluridimensionali; è un dipinto caratteristico che riassume un'esperienza composita, che lega memorie con annotazioni, codici cubisti con codici emozionali, nella dimensione di un ambiente apparentemente metafisico, che è scena teatrale e in pari tempo paesaggio irreale. Il tratto scenografico che caratterizza quest'ultima esperienza lascia desumere l'importanza dell'esperienza scenica compiuta per un intero decennio sulla ricerca formale. Tutta la pittura di Spreafico assume in questa dimensione un intero moto oscillatorio tra Rinascimento e « Romanticismo », se è vero che il Barocco fu il Romanticismo italiano, e ancora tra Rinascimento e Avanguardismo inizio secolo, tra concetto di purezza classica e inconciliabilità esistenziale. In questo moto si svolge una nutrita e accanita ricerca della verità individuale e si configura l'affanno di Spreafico per stabilire in quali condizioni potrebbe avverarsi un'ipotetica cézanniana « verità » della pittura.
Il periodo cubista ha avuto così la funzione di raccogliere e sintetizzare più esperienze apparentemente contraddittorie nel quadro di un'unica esperienza che sulle basi delle forme geometrizzanti ha attuato la sintesi dinamica.

3.   Dalla forma alla sintesi

A questo punto si stabilisce la posizione di profonda opposizione di Spreafico alla Teoria dei Valori Plastici, per la quale l'artista era una specie di testimone privilegiato dell'assoluto. Per il pittore monzese l'artista altro non è che il trasmettitore di un'esperienza personale nell'infinito — che è Mistero e Intraducibilità — quindi un « avventuroso » nel campo dei segni espressivi, che Spreafico assai modernamente non concepiva quali strumenti docili e passivi, ma come condizionamenti. In fondo la ricerca silenziosa di Spreafico è la ricerca di una moderna parola mitica; di un verbo tanto puro quanto rivoluzionario al di là delle figure archetipali. E questa parola mitica la ritroverà alla fine, esprimendola nella unità plastico-spaziale della forma-colore-luce in quanto dimensione magica.
Siamo di fronte a una forma mentale che regredisce nel tempo e riscopre sotto le figure archetipali di un cattolicesimo condizionante una forma di epicureismo pagano, mai riducibile, o quasi mai, a pura forma edonistica.
In questa prospettiva ideologica si precisa meglio la posizione di Spreafico di fronte alla Storia, da non intendersi come campo della Trascendenza, ma come spazio dialettico da vivere e da pagare di persona al fine di riscoprire nell'Intraducibilità degli eventi l'Assenza di una struttura primordiale. A questa assenza Spreafico opporrà un'armonia esaltante, una specie di droga vitale, quale risultato della propria segreta, intramontabile energia fantastica. Siamo al livello di genesi, ideologica e religiosa, del rito stesso in quanto gesto unico.
L'armonia assumerà allora con la maturità pittorica l'apparenza del « getto » immediato all'opposto dell'annotazione che obbedisce al linguaggio codificato. La pittura di Spreafico diventa la testimonianza emozionante del Principio di Eros (che è poi lo spazio del Piacere e del Desiderio). Spreafico, nel suo periodo più maturo, canta l'Eros come intervento magico dell'uomo, cioè come capacità dell'uomo di intervenire nella realtà empirica al fine di piegarla alla propria volontà in virtù dei mezzi individuali. E non sarà senza ragione che dalle figure umane emblematiche della fine degli anni quaranta Spreafico passerà con gli anni sessanta dalla figura umana al paesaggio, questo la metafora di quella. Ma non precorriamo i tempi; prima di raggiungere questo grado di totalizzazione Spreafico ha dovuto percorrere altri momenti di crisi e addirittura una ricerca del linguaggio appiattito sul segno gestuale. Per il momento restiamo alle figure emblematiche e magiche alla vigilia degli anni cinquanta in cui appare specifica e dichiarata la linea curva aperta. Questo vuol dire che la struttura dell'umano non si esibisce più come un impianto chiuso. Esso è attraversato e analizzato dalle curve che sottintendono un'interiore, nascosta dinamica, cui partecipano presenze varie, come il gatto ad esempio, la cui curva anatomica risulta costitutiva della figura che lo sorregge, arrecandovi una presenza nuova, quella dell'immagine inattesa. Verifichiamo una volta di più il tema dell'ambiguità delle cose, delle forme e delle linee, in un contesto di curve che paiono ogni volta intrecciarsi, quasi fossero prossime ad avviare un incastro di volumi, mentre al contrario non si unificano mai, abbandonando le figure all'indecifrabilità, in atteggiamenti e gesti bloccati nel loro farsi, ravvicinate fra di loro ma scostanti, impenetrabili perché incompenetrabili. L'unica attestazione di vita proviene allora proprio dal gatto, immagine tra il satanico e l'umoristico, forse allegoria o parafrasi della magia. In « Le amiche » l'espediente della compenetrazione impossibile in quanto rapporto dinamico e umano è esemplificato dalla relazione dei due volti femminili, l'uno di profilo, tagliente, l'altro quasi di fronte, la cui linea ovale si sviluppa parallela all'altra curva di profilo. In quest'opera Spreafico mette in contatto due solitudini creando un rapporto di estrema ambiguità, che rende i due visi componenti dicotomiche di una fusione ideale, cui abbiamo accennato in precedenza, la cui integrazione avverrà poi nella circolarità che caratterizzerà il viso delle prossime esperienze, e nella quale abbiamo creduto di intra-vedere l'espressione dell'unificazione degli opposti: negativo e positivo, maschio e femmina forse vita e morte sicuramente razionale e irrazionale. Il contesto è quello della cristallizzazione del movimento rimasto a mezz'aria come per incantesimo, nel quadro del quale le ardite discordanze di rossi e neri inseriscono una nota di enigmaticità suggestiva e, in una certa misura, crudele, suggerita pure dai rapporti fra trasparenze e opacità quali le ampie campiture nerastre o viola su cui si riflettono guizzi di intensa luminosità. Anche la spazio partecipa al tema dell'ambiguità, dimensionandosi come un interno scambiabile per esterno se non altro per un elemento sostanziale che li unifica: il silenzio.
Particolare riscontrabile anche nel periodo più direttamente influenzato dal Rinascimento e dal Novecentismo è il rifiuto del volto umano femminile in quanto simbolo di bellezza. La bellezza delle donne di Spreafico è data da una grazia interiore che si sprigiona dal pudore, dalle cadenze, da un certo senso di incantesimo che pervade i gruppi allegorici, o dalla mestizia remissiva e quasi candida delle figure isolate, esclusa con ciò ogni facile modellazione classicista.
All'opposto di Botticelli, cui Spreafico ha guardato al centro degli anni trenta per captare la consistenza di una grazia di cadenze quale poteva rivelarsi dall'implicita concezione naturalistica, la bellezza per Spreafico non è candore ma pretesto di sublimazione di una precedente esperienza esistenziale.
Il processo psicologico che sottintende l'evoluzione della pittura di Spreafico è allora quello della regressione che, partendo da uno stato di isolamento prossimo alla solitudine ontologica, si organizza alla fine della ricerca di una identità costruttiva in forme di auto¬erotismo, nel cui spazio il pittore ritrova a livello di creatività, vale a dire di uso individuale dei mezzi espressivi, una potenzialità fantastica analoga a quella del bambino.
La dicotomia fondamentale di Spreafico consiste allora in questa nuova polarità che al fine assomma tutte le altre: la magia che ha per risvolto il silenzio, causa e parametro della solitudine dell'essere umano, solitudine per ricchezza di mistero incomunicabile con la parola ormai dissacrata, come mito unico e vero dell'essere umano. Il silenzio, pur nella sua indefinitezza, è riscontrabile già nei primi gruppi allegorici. La parola pare brillare ancora per un attimo, quasi per rito, sulla bocca dello zingaro nel quadro omonimo. Poi, ad eccezione dell'esperienza espressionista dove è diventata « rumore » in quanto ridondanza, la parola si eleverà a simbolo del silenzio e ciò per improbabilità di verità della parola stessa. A questo punto l'arte di Spreafico parrebbe riflettere su se stessa, sulla parzialità della verità trasmessa dagli strumenti espressivi.
Nella fase che va dall'incantesimo del silenzio all'intervento magico del creatore emerge così nella pittura di Spreafico un nuovo processo, quello dell'assorbimento dello spazio e del tempo nella forma-colore. E' il momento di passaggio dalla forma alla sintesi. Le donne di Spreafico, quelle del gatto in braccio e dei gruppi silenziosi, saranno gli ultimi prototipi di quella generazione contrassegnata dall'enigmaticità.
Ormai ci avviciniamo all'ultimo armonioso periodo che è quello dell'esplosione della forma-colore, il momento della sintesi totale, autoritaria, inebriata della totalità dell'atto pittorico, che per Spreafico doveva fondere due momenti essenziali, quello dell'analisi e della sintesi, della distruzione dell'unità degli oggetti e della struttura, e mirare al fine ultimo di una ricostruzione attuata attraverso puri valori captati e imprigionati.
Dall'immagine medianica dell'artista dei « Valori Plastici » si passerà a quella del taumaturgo. Ma per arrivare a quest'ultimo ci vorranno ancora anni di sperimentazione, apparentemente disordinata, in realtà tutta retta da una vocazione artistica pura, tale da elevare l'atto pittorico a fatto etico, se per etica si può intendere il rifiuto della concessione, del « modo » estetico, della « bravura », come scrisse Spreafico. « Tra il pittore artigiano e il pittore intellettuale — annotava — preferisco il pittore artigiano, quando, ben inteso, si tratti di vero artista, che è in grado di comunicare direttamente la propria intuizione spoglia di sovrastrutture ». E ci sarà perfino un momento, attorno agli anni sessanta, in cui Spreafico afferrerà l'esigenza di ridurre la pittura a calligrafia, sperimentando con l'inchiostro grasso « l'informe », in particolare la « pittura segnica », specie di un Soulages, appiattendo — come già abbiamo detto — il semantico e il sintattico sulla traccia del gesto, pur calcolato che esso sia. Fu un'esercitazione eseguita nell'intenzione di sbarazzarsi per un momento di tutta un'acculturazione decennale tanto più insidiosa quanto più incrostata, per prepararsi allo sviluppo successivo: quello della sintesi, che richiedeva una vocazione calligrafica rinnovata. Il salto dagli anni cinquanta agli anni sessanta è stato qualificante e definitivo, intenso di stimoli, calibrato più di quanto non lo si indovini.
All'inizio degli anni cinquanta la pittura di Spreafico si era arricchita di esperienze, di riferimenti, di annotazioni essenziali e incisive: « Cavalla bianca » del 1950, « Paesaggio al parco di Monza » e « Ponte a Parigi » dello stesso anno, « Venezia » del 1951, quest'ultimo dai frivoli accenni e dalle reminiscenze settecentesche, mostrano la ricchezza del reticolato simbolico che si è ramificato sotterraneamente alla composizione e che tutto pare trattenere in un equilibrio sempre più tenue, come per un fiato sospeso, già pronto all'esplosione di colore, che, ripetiamo, avverrà da lì a neppure una decina d'anni, con il ricomporsi di forme geometriche quali nuove unità espressive spazio-temporali mutuate dalle prime curve articolate dalle figure femminili degli anni quaranta-cinquanta.
Emerge da quest'esperienza una vocazione geometrizzante aperta a una vena naturalistico-espressionista nel contesto della quale vuoti e pieni tendono a compensarsi, articolando linee verticali e orizzontali a spazi compenetranti, come è il caso di « Ponte a Parigi », su cui campeggia la sagoma longilinea e un po' fantomatica dell'obelisco, che riprende la funzione di quell'immagine eterea, talvolta evanescente, sempre reale, che abbiamo visto apparire fin nei primi paesaggi e imporsi come la figura della smaterializzazione dei gruppi allegorici attorno al 1936. Costante ormai della pittura di Spreafico è questa immagine fantomatica che inserisce una nota allucinata, quasi presenza provocatoria, quel qualcosa d'« altro » che si contestualizza nella pittura come emergenza involontaria e che ripropone, non appena diventa insistente, una rilettura nuova del « testo ». Essa non tarderà a riflettersi su tutto un discorso che pare partire da Corot e da Marquet e che invece si mescola con altri ingredienti, dando all'intera composizione un significato immediatamente « altro », un'atmosfera vagamente surrealista, pur restando fedele al referente.
La riduzione delle linee a forme « primarie », semicerchi, quadrati, rettangoli e loro unificazioni è uno dei motivi più significativi di questa esperienza e sicuramente l'esito conclusivo della lezione cubista, preludio alla sintesi di forme di cui consisterà l'ultimo abbagliante periodo pittorico. Infatti destrutturandosi dal loro contesto ambientale-ideologico esse si proporranno — soprattutto l'ellisse e il cerchio — come superstrutture essenziali e sufficienti per sintetizzare sia un'esperienza passata, sia l'impianto della nuova composizione che andrà emergendo verso la fine della decade, come lo comproverà il calibratissimo « Natura morta rossa » di solo sette anni posteriore al « Ponte a Parigi ».
Siamo ormai nel periodo della maturità: pennellata larga, mossa, di ispirazione ancora vagamente settecentesca, come si manifesta in « Natura morta » del 1957, pennellata ad effetti gradatamente più irrealistici, capace, al limite, di sacrificare l'identità stessa delle cose in un clima dagli assalti surrealistici, per cui i fiori e le figure femminili tenderanno a simboleggiare ambienti e paesaggi entro una dimensione cosmica in quanto godimento delle cose e dei fatti.
« Penso che vivere è bellissimo — aveva scritto un giorno Spreafico — anche il mondo è bellissimo, la felicità c'è qualche volta ». E ancora: « Il soggetto non importa: può essere ripetuto anche per tutta una vita: non è un segno di mancanza di fantasia. Ciò che conta è l'evoluzione umana del pittore, evoluzione che si riflette nel diverso modo di cogliere e di esprimere i contenuti poetici del soggetto ».
Un sentimento pagano, di tipo stoico-epicureo, ripetiamo, riprendendo una tesi espressa fin dalla prima pagina di questa breve e per nulla esaustiva presentazione, percorre l'ultimo esaltante iter artistico di Spreafico, i cui soggetti sono le Venezie, motivi floreali, nudi distesi, figure femminili e nature morte spesso abbinate a motivi floreali. Siamo al momento del colore incandescente, quale era stato preannunciato fin dall'« Autoritratto » del 1950, per non ricordare le pennellate « fauves » della « Mezza figura » del 1937.
La purezza riconquistata del colore come spiritualità immanente delle cose esalta non solo una ricchezza emozionale, ma si concilia con quella vocazione classica già implicita anche nel fauvismo francese, fondamentalmente differenziandosi così dall'espressionismo tedesco. Negli anni cinquanta e sessanta mentre il dipinto tende a destrutturarsi, nel disegno si notano un processo inverso di ristrutturazione e la ripresa di una vocazione classicista riproposta nel segno dell'aggiornamento stilistico, quale poteva derivare da Matisse o da Dufy senza dimenticare i sortilegi e le raffinatezze estetizzanti di Cocteau. E non è a caso, perché abbiamo visto quanto Spreafico guardi alla lezione matissiana circa la semplificazione delle cose, mentre a Dufy ricorre per le musicali campiture cromatiche ricche di trasparenze e di lirismo. Gli elementi musicali, che abbiamo visto sottintendere la dinamica delle figure esibentesi in motivi ritmici, si fanno più palesi e consistenti. Vi si definisce meglio la metrica tesa a una estrema semplificazione, fatta di cadenze e di accentuazioni sempre più istituzionalizzate col tempo come risultanze liriche, mai carenti di freschezza, di vero temperamento in cui Spreafico, elevandole a unità espressiva, quasi autonoma, stabilisce la verità della pittura. Su queste modulazioni euritmiche la disposizione e le sequenze delle pennellate assumono un'incidenza intrascurabile nell'economia e nello sviluppo del dipinto.
Prima di tutto le pennellate larghe simili alle spatolate (ma Spreafico non usa la spatola perché, come ricorda Ada Rusconi, « schiaccia troppo » mentre la pennellata sa e può contenere interne modulazioni e riflessi) si pongono parallele e concentriche, a secondo dei motivi, dei volumi e delle strutturazioni, con cadenze che esprimono ulteriori accordi ritmici. L'incandescenza e soprattutto la timbricità dei colori assolvono a funzioni molteplici: da una parte il « fascino » dei colori come essenza del creato, sua dimensione e consistenza, dall'altra una funzione magica, con cui si verifica l'intervento umano agli effetti di un'armonia cosmica che, in termini psicoanalitici, esprime la conciliazione del Principio di Eros col Principio di Realtà. La pittura di Spreafico assume in queste dimensioni il valore della conquistata libertà che per decenni il pittore monzese era andato tentando, persuaso che esso richiedesse un equilibrio psichico fondamentale seppur ogni volta da riconfermare nell'infinita variazione delle cose e delle emozioni.
Nei motivi floreali, bloccati entro riquadri netti, si mescolano colori timbrici e colori tonali a conferma della tensione con la quale lavorava il pittore estremamente conciso, sapiente delle sue possibilità e del cifrario psicoformale a disposizione.
« I colori sono tutti bellissimi » annotava un giorno Spreafico. E subito dopo: « Vorrei stare bene, e invece lavoro ». E ancora: « Siccome sono seccato continuo a lavorare ». Concludendo: « Ma direi che tutto va bene, realizzo ogni giorno tutto quello che voglio » e correggendosi subito dopo: « Ho dipinto tutta la vita, non ho combinato niente, ma è stato bello lo stesso ».
La pennellata diventa pertanto la misura, il segno minimale, l'appiattimento estremo del semantico e del sintattico. E' il risultato ultimo cui Spreafico perviene e attraverso questo appiattimento sul minimale egli recupera tutte le ulteriori possibili articolazioni una volta ancora di tipo semantico e sintattico, nonché ideologico. Così Spreafico giostra con le pennellate-forma rettangolari, allungandole o rimpicciolendole, articolandole strettamente sui temi fondamentali, dando loro un carattere razionalistico e, nelle articolazioni più « pure », semplici, quasi convenzionali, il senso di una classicità riscoperta e ristabilita. E' una pittura che può concedersi tutte le intemperanze e peraltro i recuperi possibili.
Abbiamo visto il recupero del lirismo; in « Fiori in vaso azzurro » si nota il recupero del naturalismo pur di sapore liricheggiante, in « S. Giorgio-Venezia » una nota surrealista. I recuperi in Spreafico non possono d'altronde che manifestarsi nella polarità che abbiamo già incontrato e descritto. Così si manifesta la polarità densità-diluizione, analoga a quella della matericità e smaterializzazione, smaterializzazione che avviene per mezzo della luce, a sua volta solidificata in forma-colore autonoma, vale a dire nelle pennellate di bianchi che echeggiano e si riverberano nelle trame.
Nella ripetizione insistita, cantata ed esaltata dei temi (fiori e, vedremo, le Venezie) si manifesta tutta la fantasia sfrenata di Spreafico, che si concreta per infinite variazioni e inesauribili « invenzioni » che raggiungono — e lo ripetiamo con intenzione — l'accento lirico e, al limite, perfino certa effusione romantica proprio nella regola e nella coerenza dell'impianto « classico », come si riscontra ad esempio nella musica di Bach, nella quale la libertà consiste in questa scoperta di infinito nel finito, e sulla base della quale, ritornando a Spreafico, la materia cromatica è la dimensione stessa dello Spirito. Riprendono, a tal punto, estremo valore strutturale e simbolico la simmetria come cadenza fondamentale, l'unità del tema, la monocromia come funzione estrema modellatasi su un tema unico. L'invenzione massima è quella di raggiungere il senso della dinamica all'interno della massa statica. E' il caso dei « Fiori rossi », di una dinamica sontuosa, quasi solenne, pluriconcentrica quale risultato di estrema sintesi: una rotazione di colori-cose e di forme-colore che ingrandisce le dimensioni, fa combaciare il particolare col tutto, fa diventare ogni cosa « altra », ove per « altro » si deve intendere solo il tutto. Per questo abbiamo affermato nelle pagine precedenti che nell'ultimo periodo la composizione costituisce un solo personaggio e che i vari temi non costituiscono a loro volta che un'unica immagine mentale.

4.   Venezia, sentimento d'amore e di morte

A questo punto la polarità fondamentale di Spreafico si riduce a due temi: quello floreale sopradescritto e il tema delle Venezie. Le Venezie sono l'opposto dei temi floreali. Se questi ultimi sono riducibili al tentativo di intrappolare l'infinito nel finito, bloccando le trame entro riquadri geometrizzanti, le Venezie costituiscono la soluzione opposta: l'esterno è aperto all'infinito e il movimento fondamentale è quello di una « fuga di linee » dal primo piano verso il fondo, vale a dire verso l'orizzonte e il cielo del « paesaggio ». Ma la composizione è molto più complessa e ardita, tale da rivoluzionare ogni rappresentazione di Venezia, assorbendo il vedutismo nella immagine mentale. Al primo piano del dipinto sono campate le gondole, rappresentate spesso nella loro parte posteriore, riprese in modo da determinare una convergenza di linee su punti imprevedibili, data la forma plastica della poppa delle gondole. Si provoca in tal modo una specie di sobbalzo delle linee di fuga prospettiche e del loro punto di convergenza, così da determinare una indefinibile sensazione di irrealtà. A sottolineare il carattere surreale del dipinto interviene il contrasto di rossi e di neri, il cui motivo cromatico viene sovente ripreso nei fondi, nel paesaggio montagnoso o collinoso che chiude inattesamente l'orizzonte, in cui per altro si colloca la sagoma di una chiesa, sicuramente quella della Madonna della Salute, motivo delle Venezie addirittura della fine degli anni trenta.
A sensibilizzare l'ambiente intervengono poi le annotazioni cromatiche di carattere frivolo, che inseriscono nel paesaggio una reminiscenza settecentesca, sulla lezione di un Piazzetta, quanto mai cariche di discreta e saporosa eleganza e raffinatezza. Il presupposto razionalistico che fa l'impostazione della pittura determinandovi cifre minimali e unità espressive, è l'assunto che inserisce negli altri temi quelli del clown e delle figure femminili, le successive pertinenze della pittura di Spreafico: il cerchio, il rettangolo, nei clowns il cono. È il momento della padronanza della materia cromatica, rafforzata da una sensibilità percorsa dagli umori più imprevedibili, compresa una sottintesa umanissima ironia. I clowns e, in parte, le figure femminili consentono a Spreafico di portare all'estrema conseguenza l'operazione di disintegrazione dell'uomo ridotto alla propria apparenza cromatica. Nel clown si va oltre alla disintegrazione dell'essere perché le risultanze cromatiche si istituiscono come unità espressive frantumate, non assommabili e quindi non sintetizzabili fra loro. Ognuna è un aspetto di carattere metonimico che assume un rapporto opposizionale rispetto a tutte le altre. Per questo la costruzione del clown è ridotta a una semplice giustapposizione di figure geometriche elementari. Il tema principale del clown è la discordanza.
Non solo le differenti superfici cromatiche, variamente impastate con tutte le sfumature, le innervature e le sovrapposizioni tonali non si saldano fra di loro, ma ognuna di esse rinvia a un'emozione, a un sentimento, a uno stato d'animo che sfaccetta l'immagine globale della figura rendendola contrastante, di una tensione aperta che è confessione di quella conflittualità esasperata insita nella personalità dell'artista. Il problema del clown e, in parte, delle figure femminili degli anni sessanta consiste dunque nel conciliare l'illusoria unità del personaggio e il tema della discordanza che a livello formale fa tutt'uno con la precarietà stessa della struttura. Spreafico ha trovato la soluzione nell'illusorio intercambio dei colori, più che imposti, proposti, quindi aperti alla sensibilità individuale del fruitore, denunciandone l'enigmatica gratuità e nello stesso tempo proclamando l'impossibilità di una perfetta, reciproca corrispondenza tra l'universo del leggibile e quello del visivo.
La differenza tra clowns e tutto il resto dell'opera dello stesso periodo consiste nella differenza della percezione: nelle Venezie e nei motivi floreali c'è invito alla complicità; nei clowns il fruitore, pur coinvolto in questa matematica della figurazione, ne risulta staccato o meglio distanziato sì da rendersi conscio dell'operazione percettiva di cui usufruisce.
Con i clowns la pittura di Spreafico abbandona quindi l'attributo essenziale della fascinazione per l'incertezza nel contesto della quale tutto si propone come ipotesi emozionale ed esistenziale, grazie a quel tocco magico che combina realtà con irrealtà. Le figure femminili di quest'epoca si differenziano infine dalle precedenti perché il trio che ne risulta è costituito, oltre che dalla coppia femminile ormai classica, anche dalla presenza del bambino.
Spreafico ritorna così, pur nell'alternarsi di parentesi di autonomia, al gruppo emblematico della Sacra Famiglia, oggetto, tra l'altro, di una pittura di tipo ecclesiastico, di cui le vetrate nelle chiese, specie in quella di Cinisello Balsamo, rimangono le testimonianze più interessanti e più ardite. La figura del bambino l'abbiamo per altro vista apparire già nei gruppi degli anni trenta a personificare l'immagine dell'Innocenza, personaggio in via di smaterializzazione. Nei gruppi degli anni settanta il bambino regredisce alla figura dell'infante e tende a far corpo col gruppo, grazie all'unità cromatica che stabilisce nuovi rapporti volumetrici leggibili in funzione dinamica. In questi gruppi di donne con bambino, le « Maternità », una circostanza cromatica e volumetrica tradisce ed esalta l'unità sentimentale delle figure del gruppo al di là del silenzio che li sorprende ancora, perfino all'interno della dinamica dei gesti che si intrecciano. Il senso cosmico racchiuso ed espresso dalla figura femminile, come l'abbiamo visto nelle pagine precedenti, pare in questi gruppi assumere la sua dimensione più naturale che l'incandescenza del colore rende universale, trattenendo in essa l'esaltante nota magica. Si può vedere in questi gruppi una forma di ideale rientro nel grembo materno sulla linea di quella « regressione » psichica che ha fatto sì che la magia diventasse l'unico rito costitutivo dell'essere umano, la sua funzione nel mondo esterno, oggetto alla fine di totale soggettivazione nel mondo dell'Eros.
Visti da quest'aspetto, i gruppi femminili con bambino visualizzano il moto regressivo che ha portato Spreafico all'autosoddisfacimento. E proprio su queste basi si può comprendere per quale ragione la solitudine, il silenzio dei dipinti vengano rotti e il loro posto venga occupato dalla dimensione cosmica e dal dialogo con gli altri, le nostre stesse figure mentali. Anche questi dipinti sono trasfusi di incandescente energia, o meglio di una carica di suggestione emozionante.
La ricerca della pittura di Spreafico, allora, è forse stata l'emozione di un solo attimo che potesse valere un'intera esistenza, anche se in realtà l'esaltazione dell'Eros, della vita e dei colori era per Spreafico solo un modo di morire.

Guglielmo Volonterio

(dalla monografia "Leonardo Spreafico" edito da Silvana Editoriale d'Arte, Milano, 1977)